PASSAGGI CON FIGURE: Elianda Cazzorla- La ragnatela d’oro

                                                                                         dalla cover di dieci prugne ai fascisti

La nonna non è in sé, va avanti e indietro, la guarda, sussurra il nome, si ferma davanti alla culla: Elvira, Elvira. La nonna, Nana, modula la voce nelle possibilità di suono che conosce: alto, basso, vibrante; allunga le vocali; vuol convincersi che quella bimba, così morbida, così rosa, così bionda, Elvira, sia proprio la sua nipotina, l’accarezza, la sfiora con le punte delle dita; è l’ultima nata, nella piccola casa in Bosnia, la casa con il giardino verde attorno. Nana canta la sua gioia, le infila un anellino d’oro, forgiato come sottile ragnatela, all’indice destro. È il 1980. Elvira quell’anellino non l’abbandonerà mai. Quando non le entrerà più al dito lo conserverà in una scatoletta, affondato nell’ovatta. Nasce un fratellino, dopo cinque anni un altro. È il 1992 la famiglia Mujcic vive a Srebrenica; succede qualcosa che non ha ancora un nome; l’ordine dice: le donne e bambini possono andare via, gli uomini no. Per ora tocca andare, vedrai passa in fretta. Per ora, è meglio allontanarsi anche di pochi chilometri dal suono degli spari. La Madre prende pochi vestiti, li mette in valigia; non portare via molto, dice il padre, per pochi giorni non serve; l’importante è andare dieci chilometri più in là; lontani da ciò che ancora non ha un nome, raggiungere la casa della zia in Bosnia centrale. Prima di salire sul bus il padre è quattro lunghi abbracci; Elvira porta con sé la ragnatela nell’ovatta, la madre tra i vestiti nasconde due piantine con le radici, qualche granello di terra resta nel fondo della valigia. Ogni tanto la bimba guarda la ragnatela d’oro, vede la casa con il giardino. Dov’è quel giardino, sotto i bombardamenti, resiste? Dalla Bosnia la Madre con i tre figli fugge in Croazia, ha 34 anni, scappa da quella cosa lì che ora ha un nome. Si chiama guerra in Jugoslavia. La Madre con i tre figli viene sistemata in un campo profughi. In un anno i bombardamenti sono sempre più intensi. Il campo in Croazia diventa ogni giorno più pericoloso; c’è una nuova partenza, non più bus, ma traghetto, da Spalato ad Ancona, per raggiungere un paesino in provincia di Brescia, in Val Camonica. Il comune, grazie a un progetto umanitario, darà loro una casa; la Madre in un vaso pianta le radici del suo giardino. Del padre non si hanno notizie.  Elvira guarda la ragnatela d’oro, ritorna ai sette anni, ritorna a giocare con sua cugina, al loro patto segreto: andare presto a letto per immaginare le storie e raccontarsele. Come andrà a finire il loro gioco il giorno dopo? Immagina e scrive poesie. Elvira in prima elementare, giura fedeltà allo stato socialista; nel 1988, vince un concorso. Una poesia per una biciletta rossa. La sogna, la vede; la bicicletta non arriva e mai arriverà; Nana le confeziona un vestitino color ambra all’uncinetto, Nana nel cortile della sua casa in Bosnia gioca con lei e con i suoi fratellini, giro giro tondo, tutti giù per terra, “Nana piegata nella sua gonna lunga e grigia”[1]. Con la ragnatela d’oro Elvira ritorna quella bambina che “sa sempre come comportarsi, come farsi amare da tutti, come farsi perdonare qualsiasi cosa, soprattutto le colpe che non ha.”[2]

La Madre, che è stata educata con i principi del socialismo, abituata ad essere autonoma, in Italia si adatta alla nuova situazione, i suoi studi in fisica non danno pane, né può rimettersi alla scrivania per fare valere la sua laurea, lavora in fabbrica e tra un turno e l’altro aspetta notizie dalla sua terra. I tre figli vogliono sapere: dov’è il padre? E intanto crescono. Giocano. Studiano. E il padre? Il corpo ancora non c’è “stiamo facendo il possibile per ritrovare i vostri cari” dice la voce al telefono; sono passati ventisette anni, diventa sempre più manifesta la ferocia del nemico che non ha risparmiato né energie, né proiettili, né bulldozer e la speranza continua ad esserci. Quanti sono gli scomparsi? Dove sono quelli che non compaiono alla luce sotto forma di miseri resti?[3] Elvira scrive; la scrittura le serve come collante per ricomporre i suoi sé: il sé di prima e quello di dopo; Elvira sogna nelle due lingue; non può usare la lingua madre quando scrive, è troppo carica di dolore. La lingua dei suoi romanzi è l’italiano, la lingua nuova che allarga la sua identità, “interrompendo il processo di balcanizzazione”[4]. E se da piccola immaginare storie era gioco, era promessa di un dono, ora è consapevole ricerca del senso da dare, se senso ha, a quanto è avvenuto. Così per raccontare la sua storia di profuga dell’ex Jugoslavia, che ha nel fondo un lungo lutto, “una sofferenza insidiosa che serpeggiava, si nascondeva, riappariva, e non c’era verso di prenderla di petto e sconfiggerla[5] “, racconta in Dieci prugne ai fascisti, con dignità, fermezza e punte di ironia il che cosa succederebbe se… Lania e i suoi fratelli ritornassero in Bosnia per partecipare, insieme agli altri parenti sopravvissuti, al funerale della nonna morta in Italia? La salma di Nana supplisce la mancanza dei resti del padre, un funerale immaginato per eliminare il tormento della domanda sempre domanda, che pare non avere risposta in nessun luogo. Il padre, dov’è? Il carro funebre attraversa i confini degli stati con il passaporto nuovo di zecca e Nana ritorna a casa. A dire il vero c’era stato un altro ritorno. Il 4 marzo del 1998, dopo sei anni di guerra e vita da profughi, Nana in auto con il nonno, aveva raggiunto la casa. Speranzosi, oltre modo, si erano ritrovati davanti a un mostro “sdentato dagli occhi bui, tenuta su da mura bruciacchiate, senza finestre, vuota a eccezione”[6] di un televisore marrone e di un lavandino e lo scaldabagno; non c’erano più le porte, i cardini impolverati. “Forse avrebbero voluto gridare, invece si aggirarono in silenzio per la casa devastata e saccheggiata.”[7] E all’entusiasmo della ricostruzione subentra il peso della sofferenza: Nana ha perso due figli, non sa dove siano, e nuove scelte dolorose l’attendono.

Nella casa della nonna, Lania ritrova alcune foto color seppia che le permettono di soffermarsi sui visi dai quali “avevo preso le labbra, gli occhi, il sorriso e il broncio. Persone dalle quali avevo ereditato malattie, stati d’animo, tendenze.  (…) Facendo un breve bilancio della mia vita, pesavano più le loro assenze di qualsiasi presenza. Sarà stata questa attrazione verso il luogo in cui erano andati loro che mi aveva sempre fatto innamorare solo di chi mi prometteva assenza? Credevo forse di poter scoprire dove erano finiti? Ho il terrore di tutto ciò che è soggetto a decadenza, al disfacimento. L’assenza rimane incorruttibile e ci si può proiettare qualsiasi bisogno.”[8]

Note a margine

Lo scritto è la rielaborazione delle risposte di Elvira Mujcic a cinque domande che le ho posto insieme alla lettura del romanzo: Dieci prugne ai fascisti. L’Intervista è stata realizzata in occasione della XIII edizione dei Dialoghi di Pistoia, tenutesi dal 27 al 29 maggio 2022. Il tema del Festival era: Dove nascono le storie? In Yuotube è possibile vedere l’incontro tra la scrittrice e Marco Aime dal titolo: Sguardi incrociati, attraversare il muro dell’alterità.

https://www.youtube.com/watch?v=DPY2uwQD4Mg&t=15s

Si riportano le cinque domande poste alla scrittrice.

  • Se siamo un’enciclopedia, se siamo un inventario, una citazione presente nei tuoi libri ripresa da Calvino: dimmi tre oggetti della tua infanzia a cui sei legata?
  • Si nasce con il desiderio di scrivere?
  • In che modo operi il passaggio dai fatti della vita al racconto sulla pagina?
  • Tua madre e la sua capacità di adattamento, da dove viene l’autonomia?
  • Perché scrivi in italiano?

 

[1] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 43

[2] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 89

[3] Solo nel 2007, una sentenza della Corte internazionale di Giustizia e altre del Tribunale penale internazionale istituito per l’ex Jugoslavia rivelerà il numero degli scomparsi nelle fosse comuni, distribuite in differenti territori della ex Jugoslavia. Tra l’11 e il 12 luglio 1995, a Srebenica, circa ottomila tra uomini e ragazzi musulmani bosniaci vengono uccisi. Il “genocidio” è compiuto. L’obiettivo del nemico: distruggere il gruppo etnico bosgnacco.

[4] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 114

[5] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 126

[6] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 93

[7] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 94

[8] Elvira Mujcic, Dieci prugne ai fascisti, Elliot 2017, pagina 130

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